Sentire, conoscere, riconoscere 

Praticare l’empatia, generare consapevolezza, attivare il cambiamento.
Il potere dell'empatia nel counseling

Nella pratica del counseling professionale, l’incontro tra counselor e la persona che a lui si rivolge non avviene su un piano formativo o informativo: il counselor non è chiamato ad enunciare teorie, insegnare nozioni o spiegare concetti, anche perché uno dei principali presupposti della postura del counselor è il riconoscimento della piena competenza della persona in merito alle proprie dinamiche relazionali, al funzionamento del proprio sistema.

Inoltre, chi si rivolge a un counselor per affrontare insieme a lui una problematica che limita il proprio benessere, apprenderà subito che il counselor non gli dispenserà consigli, non gli indicherà direzioni, non gli fornirà soluzioni né illustrerà prassi per raggiungere l’obiettivo di superare o mitigare tale problematica, ma lo accompagnerà in un percorso di esplorazione per l’emersione delle risorse a lui più utili, per l’individuazione delle modalità con cui accedervi e con cui farne uso, uso, avviando un processo di ascolto, accoglienza, valorizzazione e ridefinizione che – ricorrendo a una metafora velica – ho descritto, in chiave sistemica, nel mio articolo ‘In navigazione verso il cambiamento’, pubblicato in questo blog.

Direi allora piuttosto che il piano sul quale il counselor incontra la persona è specificamente il piano del sentire, del conoscere e del riconoscere.

È vero, la persona si racconterà rispondendo alle domande che scandiranno il percorso di counseling; si sperimenterà nelle pratiche (narrative, metaforiche, artistiche) che le verranno proposte, e così farà emergere informazioni che costituiranno elementi da osservare insieme al counselor, e sui quali iniziare a gettare una luce di consapevolezza che possa innescare dinamiche di cambiamento.

Ma, soprattutto, il counselor, osservando e ascoltando, costruendo e coltivando una relazione neutrale, onesta e disarmata, entrerà a contatto con il vissuto emotivo della persona che gli sta di fronte – l’essere in relazione è l’orizzonte entro il quale si manifesta la totalità dell’io –, giungerà a percepirla in tutte le sue sfaccettature, così da poterla accogliere in tutta la sua complessità.

Nello stesso tempo, lo stile agito dal counselor, insieme ai feedback che da lui proverranno, consentiranno alla persona che gli sta di fronte di percepire ciò che avviene internamente al counselor – il suo vissuto emotivo di fronte al racconto che ascolta; le premesse con cui approccia, rispecchia e ridefinisce le informazioni che riceve; la qualità della comunicazione ed i significati che la compongono – e questa percezione le consentirà di incrementare la consapevolezza del proprio stesso vissuto.

In questa dinamica, di conoscenza, il counselor praticherà l’empatia e, riconoscendo la complessità della persona di fronte a sé e del suo vissuto, la rafforzerà infine nella conoscenza di sé.

Laura Boella, professoressa ordinaria di Filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università Statale di Milano, nel suo libro Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia (Raffaello Cortina Editore, 2006), ci conduce a riconoscere l’empatia come via per accedere all’intera persona dell’altro, e propone alla nostra osservazione le dinamiche di coinvolgimento, risonanza e trasformazione proprie dell’empatia.

Attingo al contenuto di questo autorevole contributo filosofico per proporre un’osservazione e riflessione sul portato relazionale di questa preziosa competenza, sulle sue dinamiche, sui suoi effetti, per tentare di cogliere il ruolo che l’empatia riveste all’interno del processo di counseling, come questa interviene nell’ambito della conoscenza, dell’acquisizione di consapevolezza, dell’attivazione delle potenzialità di trasformazione e cambiamento.


Esperienza empatica e complessità della persona

Possiamo definire l’empatia come il fenomeno del nostro entrare quotidianamente in rapporto con gli altri, con coloro verso i quali rivolgiamo la nostra coscienza, cogliendo la loro individualità di persone, dotate di corpo e anima, di emozioni, di motivazioni, di valori, di una storia, di una tradizione, di una vita sociale, spirituale e religiosa. Infatti, l’essenza della persona non si risolve né nella riflessione sui suoi atti, né nella percezione e conoscenza della realtà oggettiva esterna, ma si rivela come dimensione di apertura, di partecipazione all’essere, e quindi ospita le varie esperienze del dolore e della gioia, del desiderio e della speranza, del vivere nelle comunità civile, politica, religiosa1.


Dimensione dell’esperienza empatica

L’empatia svela una dimensione dell’esperienza tutta giocata al confine tra il sensibile e lo spirituale, l’interno e l’esterno, in cui qualcosa (l’altro) mi sta di fronte come esterno/estraneo, ma non nel senso dell’oggetto/cosa, bensì nella forma del corpo e dell’anima di chi mi chiama alla relazione, a un incontro con ciò che esiste e accade fuori di me.

La parola chiave della descrizione dell’atto di empatia è “rendersi conto”, cioè osservare, percepire, accorgersi di qualcosa che, affiorando davanti a me, mi si contrappone come oggetto (come, ad esempio, le sofferenze che leggo sul volto dell’altro).

È vero che la sofferenza sul volto dell’altro mi compare davanti come un oggetto, fa parte della realtà esterna. Solo che non mi sta di fronte come un albero, che posso attrarre e afferrare direttamente con la vista ma che, al tempo stesso, rimane lì, al suo posto, diverso e fuori da me perché è una cosa.

Per cogliere in modo appropriato il dolore o la gioia dell’altro, io vado presso l’altro: l’altro mi sposta verso di sé come se fosse un oggetto esterno, ma in realtà mi attrae verso di sé, in un pieno sentire che ha luogo anche se non sono presso, ma fuori di me2.


Il paradosso dell’empatia: l’esperienza di ciò che non è mio

Così, mentre cerco di chiarire a me stesso lo stato d’animo in cui l’altro si trova, l’altro non è più oggetto in senso proprio, ma mi ha coinvolto in sé. Ora non sono più rivolto verso di lui, ma sono in lui rivolto verso il suo oggetto, sono presso il suo soggetto, sono al posto di questo, rivolto all’oggetto che è il suo stato d’animo.

Questo è il miracolo e il paradosso dell’empatia: faccio esperienza interiore di un’esperienza che non è la mia, vivo un sentimento che non è il mio.

L’empatia va allora tenuta distinta da tutte le varie forme di partecipazione al vissuto emotivo dell’altro: empatia non vuol dire gioire o soffrire insieme all’altro, provare compassione, e nemmeno avere un’esatta nozione delle ragioni e delle cause del sentire altrui. Empatia vuol dire allargare la propria esperienza, renderla capace di accogliere il dolore, la gioia altrui, mantenendo la distinzione tra me e l’altro.

Può accadere che in un secondo tempo intervenga una partecipazione emotiva nella forma del gioire o del soffrire insieme. Ma ciò può avvenire solo se c’è stata empatia, se l’orizzonte della mia esperienza si è ampliato e ha accolto il dolore, la gioia, dell’altro3.


Le fasi dell’esperienza empatica

L’esperienza empatica si sviluppa attraverso tre fasi: dall’emozione dell’incontro, alla comprensione dell’altro attraverso l’esercizio dell’immaginazione, alla trasformazione di sé. Le percorriamo brevemente.

L’emozione dell’incontro. L’altro mi sta di fronte come una cosa, ma non è una cosa, ha un corpo vivo come me. Ciò che mi sconvolge, mi spaventa, mi incanta è la rivelazione della relazione tra me e l’altro. Tuttavia potrò lasciarmi coinvolgere fino in fondo nell’incontro con l’altro solo nel momento in cui accetterò di lasciarmi modificare, aprendomi alla possibilità di un’esperienza di somiglianza e dissomiglianza, di focalizzazione su un aspetto del corpo, di decifrazione delle espressioni e dei gesti dell’altro.

Immaginare e comprendere. Dopo l’emozione dell’incontro e la scoperta dell’esistere con altri, sento il bisogno di ristrutturare la mia identità, e l’unico modo per farlo sarà cercare di comprendere l’altro, immaginando il suo stato d’animo, le motivazioni del suo agire, la sua personalità. Il ponte verso l’altro sarà gettato se sarò in grado di compiere nell’immaginazione insieme a lui il suo vissuto, di lasciarmi guidare dal suo dolore e dalla sua gioia fino a essere trascinato dentro, quasi vivessi la sua stessa esperienza, ben sapendo che non mi sarà dato di viverla direttamente al suo posto.

Trasformazione di sé. Vivo sentimenti che non mi appartengono; attraverso il riconoscimento e lo scambio reciproco dei moti interiori, giungo a sentire la fragile umanità che mi accomuna all’altro e, insieme, ci sovrasta4.


Praticare l’empatia: immaginazione, possibilità e dono di pensieri

Come abbiamo visto, per sintonizzarci con il mondo e le esperienze dell’altro è necessario esercitare l’immaginazione. Nella pratica dell’empatia, l’immaginazione non è una ricostruzione mentale distaccata dall’esperienza altrui, distinta dalla partecipazione emotiva al suo destino, né la prefigurazione di una pura possibilità opposta alla realtà effettiva che abbiamo di fronte.

L’immaginazione è al contrario una risorsa fondamentale nel passaggio dal “sentire l’altro” all’assumersi una responsabilità per il suo destino di essere che patisce, che gioisce. Essa richiede la capacità di anticipare il senso e il valore del dolore o della gioia dell’altro. Per fare questo occorre riuscire a mettere accanto o nello spazio di profondità dell’esperienza che mi è nota o che semplicemente mi riguarda direttamente, la possibilità di un’altra logica, di un altro eventuale esito, su un piano diverso.

Questo passaggio è cruciale per la pratica dell’empatia. Lo riconosciamo ogni volta che l’empatia, la comprensione dell’altro, ci vede coinvolti e partecipi in esperienze che non ci appartengono o ci sovrastano – come la malattia, o una catastrofe che colpisce una popolazione – e di conseguenza si scontra con la sproporzione tra la nostra persona e gli avvenimenti o i casi della vita che colpiscono altri, noti e ignoti.

L’immaginazione è il cuore dell’empatia e l’intelligenza di ogni forma di compassione, di partecipazione al destino altrui, perché dà pienezza a quanto spesso diciamo e concretamente sentiamo, senza forse dargli troppa importanza: “ho pensato a te”, “ho pensato a quell’avvenimento”. Questi modi di dire alludono a un dono di pensieri, che è trasmettere all’altro, che sta su di un altro piano, le ragioni, il senso di un desiderio di comprendere, di un vedere, sentire, pensare oltre e di più rispetto al cerchio dell’esperienza soggettiva5.


Empatia e relazione: occasione di trasformazione

Comprendiamo allora che l’empatia apre e definisce lo spazio della relazione, che essa è la percezione affettiva che un soggetto ha di un altro soggetto, l’incontro con il volto, i gesti, le espressioni di un altro. Grazie all’empatia, sento chi è l’altro senza fermarmi al che cosa fa e lo colgo come parte di un mondo comune, faccio esperienza dell’altro e sperimento la possibilità di trasferirmi nel suo modo di essere, esco dai limiti della mia individualità.

L’esperienza compiuta dell’empatia rappresenta la scoperta del valore del nostro esistere insieme agli altri, la rivelazione del potere creativo e trasformatore delle relazioni.

Perché se conosco e sento il vissuto dell’altro, accolto e ospitato da me, questo vissuto mi tocca, si radica nel mio centro e mi trasforma6.


Circolarità, consapevolezza e cambiamento.

Praticando l’empatia, il counselor esce da sé stesso ed entra in piena relazione con la complessità della persona che ascolta e osserva, facendo così esperienza del suo vissuto emotivo, vivendolo interiormente.

Così, nel momento in cui il counselor, consapevole di tale esperienza e dei suoi effetti su di sé, ne condivide qualche aspetto con la persona che ha di fronte, facendola riecheggiare nella circolarità dell’interazione – tale per cui ogni atto comunicativo genera un feedback che a sua volta genererà un feedback successivo, e così via – la persona si sorprende del grado di conoscenza e comprensione che si è verificato, si sente destinataria di profonda cura e attenzione, si sente riconosciuta negli aspetti di sé (premesse, valori, emozioni, dinamiche relazionali, risorse) che il counselor ha visto e conosciuto, e a sua volta riconosce questi stessi aspetti, confermando la loro dignità e significatività.

In definitiva, la pratica dell’empatia da parte del counselor consente l’acquisizione nella persona da lui accolta di una più profonda consapevolezza rispetto al proprio vissuto emotivo, ai propri valori, agli aspetti della propria storia emersi nel percorso, alle proprie potenzialità e risorse. Tale maggior grado di profondità deriva proprio dall’aver condiviso con il counselor la stessa esperienza interiore in ordine alla dimensione emotiva, valoriale, biografica, ecc. Insomma, un conto è sentire che qualcuno coglie o comprende, a livello intellettivo, il tuo vissuto; di tutt’altra intensità e qualità è esperire che qualcuno in quel vissuto si è calato, ne ha fatto esperienza, lo ha conosciuto entrandovi in relazione.

Perché l’empatia è un ponte che connette e realizza l’emersione, il riconoscimento e la libera circolazione dei vissuti, potenziando infine la narrazione delle storie.

La consapevolezza così generata costituirà il primo passo per avviare il cambiamento ricercato, per comprendere come modificare uno stile comunicativo, come rimodulare un approccio relazionale, per scegliere di intraprendere una strada tralasciandone un’altra, o di dare spazio a una risorsa e smorzare qualche elemento di disturbo, affinché anche il vissuto emotivo finora condiviso possa cambiare e siano infine realizzate nuove aspirazioni di benessere.

1 Vedi L. Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, p.14 e ss.
2 Vedi L. Boella, op. cit, p. 21 e ss.
3 Vedi L. Boella, op. cit, p. 24 
4 Vedi L. Boella, op. cit, p. 28 e 29 
5 Vedi L. Boella, op. cit, p. 100 e ss. 
6 Vedi L. Boella, op. cit, p. 89 e ss

“Se guardi il volto di qualcuno abbastanza a lungo, alla fine sentirai che stai guardando te stesso.”

Paul Auster

“L’empatia è un modo speciale per conoscere gli altri e noi stessi.”

Carl R. Rogers

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